[Riflessione]: Degenerazioni – Tra orgoglio e vittimismo di genere [ITA-CAS-ENG]

(Scritto apparso sul numero 3 del giornale anarchico Vetriolo)

Sono anarchica, non sono femminista perché percepisco il femminismo come un ripiegamento settoriale e vittimista, non ho mai fatto discriminazioni di genere anche se non uso convenzioni linguistiche gender-friendly, anzi uso spesso un linguaggio sporco e politicamente scorretto. Ritengo che nella ricerca dell’anarchia, ovvero nella pratica di rapporti antiautoritari sia già contenuto e vada coltivato l’annullamento di privilegi ed oppressioni di genere. Ah, dimenticavo, detesto l’autocoscienza in sede pubblica e pure le assemblee le ritengo uno strumento spuntato. Capisco ed ho la volontà di incontro, ma vedo come troppo spesso il momento assembleare scada nell’autorappresentazione sterile. Ecco, di questi tempi si rischia di dover esordire con un preambolo simile per entrare nel ginepraio dei luoghi comuni su genere e femminismo, districandosi nell’intricatissima incapacità e inabilità a rapportarsi della galassia anarchica, con un range di comportamenti che va dall’iperemotività al burocratico calcolo della posizione da assumere (e del grado di compromesso negoziabile) in una lotta. Non credo che comportamenti autoritari e sessisti si combattano cercando di diffondere nuove convenzioni linguistiche e riscaldando in salsa alternativa brandelli di retorica indignata mainstream (tra #nonunadimeno, contatori di femminicidi in TV, pride, scarpette rosse e coccarde arcobaleno).

Piuttosto bisognerebbe riconoscere questi come indici dell’ennesima operazione di decostruzione di significato reale e recupero in atto. Ovvero, credendo di opporvisi, di fatto ci si sta adeguando agli stessi codici comportamentali e normativi concessi dal dominio, come sfiatatoi di tensione.

Non è una novità che il potere economico e politico tenda a fagocitare e ridigerire tutto, sempre più veloce, si vedano ad esempio le perle di neoconservatorismo e conformismo anti-sessista, anti-razzista e quant’altro che vengono quotidianamente elargite dai media.

Un iniziale fraintendimento credo sia l’incapacità di collocare determinati comportamenti, riducendo in chiave di problemi di genere quanto dovrebbe essere proprio di una più ampia critica in senso antiautoritario dei rapporti e delle capacità di comunicazione e interazione tra individui.

Bisognerebbe lasciare la categorizzazione per generi, in stile LGBTI (XYZ…) a chi ha bisogno di sentirsi categoria protetta, all’interno di incasellamenti degni più di una classificazione linneiana delle varietà di combinazioni tra individui che di corpi e menti libere. Ci si trova invece a confrontarsi con tali incasellamenti in ambiti antiautoritari, che dovrebbero averne già interiorizzato il rifiuto.

Per inciso sono ben lontana dal credere che i cosiddetti spazi liberati lo siano realmente, sempre, anzi spesso diventano parcheggi di malesseri vari che al posto di innalzare la qualità della vita e dei rapporti, rischiano di abbassarli ulteriormente.

Ad esempio non è possibile leggere in chiave di sessismo, imposizione autoritaria o violenza di genere qualsiasi incapacità di interagire addirittura in ambito assembleare: leggo in un opuscoletto[1] in circolazione l’anno scorso, per stigmatizzare la violenza latente nei rapporti tra compagni “allora il più vecchio esercita il potere sul più giovane, chi ha più esperienza impone a chi ne ha meno, chi è più forte a chi lo è meno, ricreando come in uno specchio le relazioni dell’esistente che si dice di voler sovvertire”.

La critica vorrebbe essere ad atteggiamenti autoritari in ambienti antiautoritari ed avrebbe un senso, ma così banalizza ed appiattisce tutto: esiste una differenza fondamentale tra imposizione della forza ed espressione dell’esperienza. L’incapacità di esprimersi o di fare non è autoritaria o antiautoritaria e non può che risolversi individualmente… sennò si arriva all’idiotismo dell’elogio dell’incapacità e dell’inazione.

Il concetto di violenza emotiva o di violazione dell’integrità emozionale è quanto mai labile, perché promuovere simile paccottiglia analitica tra individui antiautoritari che dovrebbero avere armi critiche e capacità pratiche d’intervento ben più affilate? Oltretutto svuotando di senso la violenza subita e brutale a cui viene accostata. Come pretendiamo di impegnarci in una lotta senza quartiere contro l’autorità e discettare di violenza rivoluzionaria e liberatrice se non riusciamo neppure a reagire individualmente ad un “commento non richiesto per strada” (prendendolo per quello che è, e trattando di conseguenza chi l’ha sputato) o di sostenere una discussione accesa, in un incontro, senza ricorrere al paravento della sensibilità infranta? Perché trovarsi a leggere la disarmante e lapalissiana idiozia che consiglia, per evitare un aborto indesiderato, di far l’amore con una donna?[2] Perché codificare, magari in ambito di genere, per sole “bande di femmine”, come conquista, l’autodifesa da aggressioni e molestie? Non è forse un problema comune ai generi, tra esseri liberati?

Perché rispolverare dagli armadi del femminismo anni ’70 i prodotti più logori quali gli incontri separatisti… magari chiamandoli work-shop (bruttissimo termine che coniuga lavoro e negozio, mutuato da convention aziendali e indegno della libera discussione)?

Lo spettro di un simile meccanismo riduttivo e banalizzante lo leggo in un’altra pubblicazione recente, l’edizione italiana dei testi rivendicativi delle Rote Zora[3], ovvero l’intento di sensibilizzare solo un pubblico femminista su di un gruppo di donne praticanti la lotta armata negli anni ’80/’90 in Germania, insistendo sulla scelta di genere, di fortissimo interesse su alcune tematiche femministe, come una discriminante privilegiata e per toglierle dall’oblio… visto che non si vorrebbe “che entri a far parte della storia ufficiale. Essa è scritta da uomini”[4]… Maaahh?!? Non è che la storiografia ufficiale tende a non trattarle perché arrabbiate, non femministe arrabbiate? Così come non tratta – o travisa – la storia, le azioni, gli scritti di tanti altri arrabbiati ed arrabbiate? La visione parziale non è quella delle Rote Zora che sperimentarono un proprio percorso di lotta e liberazione individuale e collettiva nell’ambito di una più ampia azione antimperialista ed anticapitalista, ma di chi cerca di farne una bandiera per dare maggiore credibilità e peso specifico al proprio teorizzare, magari per ridursi poi a cercare “percorsi di autodifesa”.

Perché arroccarsi su di un discorso “femminista e lesbico”[5], perché un’altra gabbia protettiva, piuttosto che sviluppare la bellezza e gli infiniti spunti più avanzati di critica al dominio (non solo di genere) offerti e sperimentati?

La “sorellanza” mi è sempre sembrata una forma di alienazione allusiva di alleanze politiche trasversali tra oppressi ed oppressori, tra parti avverse… “interclassiste”, come è tornato di moda dire. In questo periodo mi è capitato pure un libretto[6] che raccoglieva le interviste effettuate da una femminista italiana ad alcune reduci della rivoluzione spagnola nel 1936, cercando una discutibile “sorellanza” tra anarchiche impegnate al fronte (e nelle retrovie con le Mujeres Libres), poumiste e staliniste. Era piuttosto significativo che delle rivoluzionarie anarchiche quasi centenarie fossero molto più lucide e aperte nella critica ai limiti del femminismo della loro intervistatrice, imbevuta di luoghi comuni anni ’70: con la tranquillità estrema di una vita vissuta pienamente, riuscivano a spiegare con semplicità il rapporto paritario tra compagne e compagni, di come riuscissero a ridicolizzare e neutralizzare i machismi che emergevano tra i più retrogradi e stupidi tra i loro compagni. Insomma le pratiche e l’apporto teorico di queste donne sono molto più avanzate nel percorso di liberazione dell’individuo e negazione di dinamiche autoritarie, delle femministe che spigolano sulle loro esperienze, difendendo simulacri di lotta in luogo della lotta stessa. La necessità di autodafè, la “decostruzione dei propri privilegi di maschio”, la ricerca di spazi di discussione separati, l’autocoscienza ed autoanalisi in sede pubblica sembrano un po’ troppo il segno di questi tempi di sovraespozione e pressappochismo, sbandierare “lotte” per categorie e lotte interiori per finire per non lottar per nulla.

Anna,
carcere femminile di Rebibbia
Ottobre 2018

[1] Violenza di genere in ambienti antiautoritari ed in spazi liberati, ed. italiana tradotta dallo spagnolo nel 2017

[2] Critica all’aborto, Jauria – Pubblicazione transfemminista per la liberazione animale, n°1, Estate /Autunno 2015

[3] Rote Zora – guerriglia urbana femminista, Autoproduzione Femminista, 2018

[4] Dall’introduzione dello stesso libro

[5] Che tra l’altro le stesse Rote Zora non ritenevano caratterizzante. Dall’intervista alle Rote Zora del 1984: “Alcune di noi hanno figli, molte altre no. Alcune sono lesbiche, altre amano gli uomini”, pag 51, ibidem

[6] Donne contro, Isabella Lorusso, ed. CSA editrice, 2013

===================================================
[CAS]

Degeneraciones entre el orgullo y el victimismo de género

(Escrito aparecido en el número 3 del periódico anarquista Vetriolo, extraído de Anarhija.info y traducido por Contramadriz).

Soy anarquista, no soy feminista porque percibo el feminismo como un retroceso sectorial y victimista, nunca he discriminado el género aunque no utilice las convenciones lingüísticas amigables con el género, pero a menudo utilizo un lenguaje sucio y políticamente incorrecto. Creo que en la búsqueda de la anarquía, o en la práctica de las relaciones antiautoritarias, la anulación de los privilegios y las opresiones de género ya está contenida y debe ser cultivada. Ah, lo olvidé, odio la autoconciencia en lugares públicos e incluso en las asambleas, las considero una herramienta fuera de lugar. Entiendo y tengo la voluntad de cumplir, pero veo con qué frecuencia el tiempo de montaje expira en la auto-representación estéril. Aquí, en estos días corre el riesgo de tener que debutar con un preámbulo similar para adentrarse en el laberinto de lugares comunes sobre género y feminismo, desenredando la intrincada incapacidad y discapacidad para relacionar la galaxia anarquista, con una gama de comportamientos que van desde el hiperemotivismo hasta Cálculo burocrático de la posición a tomar (y del grado de compromiso negociable) en una lucha. No creo que se estén combatiendo los comportamientos autoritarios y sexistas tratando de difundir nuevas convenciones lingüísticas y calentándonos con restos de salsa de la retórica indignada de la corriente principal (entre #nonunadimeno, contadores de feminicidios en la televisión, el orgullo, los zapatos rojos y las escaramuzas del arco iris).

Más bien, deberíamos reconocerlos como índices de la operación número uno de deconstrucción del significado real y la recuperación en curso. En otras palabras, creyendo oponernos, de hecho nos estamos adaptando a los mismos códigos de comportamiento y normativos otorgados por el dominio, como los respiraderos de tensión.

No es una noticia que el poder económico y político tiende a envolver y reducir todo, cada vez más rápido, vea, por ejemplo, las perlas del neoconservatismo y el conformismo anti-sexista, antirracista y cualquier otra cosa que los medios de comunicación diariamente dan.

Un malentendido inicial que creo es la incapacidad de establecer ciertos comportamientos, reduciendo en términos de problemas de género lo que realmente debería ser una crítica más amplia en el sentido antiautoritario de las relaciones y habilidades de comunicación e interacción entre individuos.

Deberíamos dejar la categorización por géneros, en estilo LGBTI (XYZ …) a aquellos que necesitan sentirse protegidos, dentro de encierros que valen más que una clasificación lineal de la variedad de combinaciones entre individuos que liberan cuerpos y mentes. En cambio, nos encontramos frente a tales casos en áreas antiautoritarias, que ya deberían haber internalizado el rechazo.

Incidentalmente, están lejos de creer que los llamados espacios liberados son realmente, siempre, de hecho, a menudo se convierten en estacionamientos con diversas incomodidades que, en lugar de mejorar la calidad de vida y las relaciones, conllevan el riesgo de reducirlas aún más.

Por ejemplo, no es posible leer en términos de sexismo, imposición autoritaria o violencia de género ninguna incapacidad para interactuar incluso en la asamblea: leí en un folleto [1] que circulaba el año pasado, para estigmatizar la violencia latente en las relaciones entre compañeros ” luego, los ejercicios más antiguos ejercen poder sobre los más jóvenes, los que tienen más experiencia imponen a los que tienen menos, los que son más fuertes a los que son menos, recreando en un espejo las relaciones de lo existente que se dice que quieren subvertir “.

La crítica sería a las actitudes autoritarias en entornos antiautoritarios y tendría sentido, pero trivializa y aplana todo: hay una diferencia fundamental entre la imposición de la fuerza y ​​la expresión de la experiencia. La incapacidad de expresarse o de hacer no es autoritaria o antiautoritaria y solo puede resolverse individualmente … de lo contrario, se puede llegar a la idiotez de la alabanza de la incapacidad y la inacción.

El concepto de violencia emocional o la violación de la integridad emocional es tan lábil, ¿por qué promovemos basura analítica similar entre personas antiautoritarias que deberían tener armas mucho más críticas y habilidades prácticas de intervención? Por otra parte, la violencia y la violencia brutal a la que se aborda se vacía de significado. Como afirmamos, nos comprometemos en una lucha sin cuartel contra la autoridad y estamos en desacuerdo con la violencia y la liberación revolucionarias si ni siquiera podemos reaccionar individualmente ante un “comentario no requerido en la calle” (entendiéndolo como es, y tratando a los que ¿Ha escupido) o para sostener una discusión acalorada, en una reunión, sin recurrir a la pantalla del sentimiento roto? ¿Por qué te encuentras leyendo la idiotez descarada y descarada que aconseja, para evitar un aborto no deseado, para hacer el amor con una mujer? [2] ¿Por qué codificar, tal vez en el campo del género, solo para “bandas de hembras”, como una conquista? ¿Defensa propia contra agresiones y acoso? ¿No es un problema común a los géneros, entre los seres liberados?

¿Por qué deshacerse de los productos más desgastados de los vestuarios del feminismo en la década de 1970, como las reuniones separatistas … tal vez llamándolos talleres (un término muy feo que combina trabajo y tienda, tomado de convenciones corporativas e indigno de discusión libre)?

Puedo leer el espectro de un mecanismo tan reductor y banal en otra publicación reciente, la edición italiana de los textos de venganza de Rote Zora [3], que tiene la intención de crear conciencia entre un público feminista sobre un grupo de mujeres que practican. La lucha armada en los años 80/90 en Alemania, insistiendo en la elección del género, de gran interés en algunos temas feministas, como un discriminador privilegiado y para eliminarlos del olvido … ya que no querrías “ser parte de la historia”. oficial. Está escrito por los hombres “[4] … ¿Maaahh? ¿No es que la historiografía oficial tiende a no tratarlos porque son feministas enojadas, no enfadadas? ¿Así como no trata, o tergiversa, la historia, las acciones, los escritos de muchos otros enojados y enojados? La visión parcial no es la de Rote Zora, quien experimentó su propio camino de lucha y liberación individual y colectiva dentro de una acción más amplia antiimperialista y anticapitalista, sino la de quienes intentan convertirla en una bandera para otorgar mayor credibilidad y peso específico a sus propios medios. teorizar, tal vez reducir y luego buscar “caminos de autodefensa”.

¿Por qué pegarse a un discurso “feminista y lesbiana” [5], por qué otra jaula protectora, en lugar de desarrollar la belleza y las ideas infinitas más avanzadas de crítica del dominio (no solo de género) ofrecida y experimentada?
[ENG]

Anna

Degenerations – Between pride and gender victimhood
(An article Degenerazioni Tra orgoglio e vittimismo di genere
Published in issue 3 of the anarchist paper Vetriolo)

I am anarchist, I am not feminist because I see feminism as a sectorial and victimist withdrawal, I have never made any gender discrimination although I don’t use gender-friendly linguistic conventions, on the contrary I often use dirty politically incorrect language. I think that the annulment of gender privilege and similar oppression is already contained in the search for anarchy, that is to say in the practice of antiauthoritarian relations, and should be cultivated there. Ah, I forgot, I loathe consciousness-raising in public meetings and I also consider assemblies to be blunt instruments. I understand and also have the will to meet. But I see how all too often the assembly degenerates into sterile self-representation.

You see nowadays you risk having to start off with such a preamble in order to enter the thicket of clichés on gender and feminism, disentangling yourself in the intricate incapacity to relate to the anarchist galaxy, with a range of behaviours going from hyper-emotiveness to the bureaucratic calculation of what stand (and degree of negotiable compromise) to take in a struggle. I don’t think that authoritarian and sexist behaviour can be fought by trying to spread new linguistic conventions or by cooking up shreds of mainstream indignant rhetoric (among which #nonunadimeno [enough is enough], the feminicide count on TV, pride, red shoes and rainbow ribbons) in an alternative sauce.

Rather these should be recognized as signs of yet another operation of the deconstruction of real meaning and recuperation in act. Convinced that one is opposing them, in actual fact one is adapting to the very behavioural and normative codes conceded by dominion as ways of releasing tension.

It’s nothing new that economic and political power is tending to swallow up and redigest everything, faster and faster; consider for example the pearls of anti-sexist, antiracist or whatever it might be neo-conservatism and conformism that are being dispensed by the media every day.

I believe that the first misunderstanding is the inability to put certain kinds of behaviour into context, within what should be a wider critique of relations and communication and interaction between individuals in the antiauthoritarian sense, reducing them to the level of questions of gender.

Gender categorization, in LGBTI (XYZ…) style, should be left to those who need to feel themselves a protected category, in pigeonholes more suited to a Linnaean categorization of individuals than free bodies and minds. Instead, we find such pigeonholes in antiauthoritarian milieus, which should already have internalized their refusal.

By the way I’m far from believing that so-called liberated spaces really are such, in fact they often become parking lots for various forms of malaise and instead of enhancing the quality of life and relationships they risk lowering it even more.

For example it’s not possible to see every inability to interact in a meeting as sexism, authoritarian imposition or gender violence: I read in a pamphlet [1] that was around last year stigmatizing the latent violence in relations between comrades ‘the oldest exercises power over the youngest, those with more experience impose themselves on those who have less, whoever is stronger on the not so strong, mirroring the relations of the existent we say we want subvert.’

This is supposed to be a critique of authoritarian attitudes in antiauthoritarian milieus and it would be valid, were it not that it banalises and flattens everything: there is a fundamental difference between imposition of strength and the expression of experience.

The inability to express oneself or to act is neither authoritarian nor antiauthoritarian, and can only be solved individually… otherwise we come to the idiocy of praising inability and inaction.

The concept of emotive violence or the violation of emotional integrity is even more ephemeral, because it promotes this analytical junk amongst antiauthoritarian individuals who should have far sharper critical weapons and practical capacity of intervention. As well as emptying of meaning the inflicted and brutal violence it is being compared to.

How can we claim to engage in an unrelenting struggle against authority and dissertate on revolutionary and liberatory violence if we cannot even react individually to some ‘undesired comment in the street’ (by taking it for what it is, and dealing with it accordingly with the person who spat it out) or keep up an animated discussion during a meeting without having recourse to the shield of violated sensitivity? Why do we find ourselves reading the disarming and obvious idiocy that advises making love with a woman in order to avoid an unwanted abortion? [2] Why codify, even in the field of gender, only for “female gangs”, like conquest, self-defence from aggression and harassment? Isn’t this a problem common to all genders among liberated beings?

Why should we revisit the most outworn products in the wardrobe of 1970s feminism, such as separatist meetings… maybe calling them workshops (a really ugly term that combines work and shop, borrowed from business conventions and unworthy of free discussions)?

I read the spectre of the same reductive and banalising mechanism in another recent publication, the Italian edition of the Rote Zora claims [3], i.e. the intention to sensitize only a female audience about a group of women who carried out armed struggle in the 1980s and 90s in Germany, insisting on the choice of gender, of very great interest on some feminist topics, as a privileged discriminating factor for taking them out of oblivion… given that one doesn’t want it ‘to belong to official history. It is written by men’ [4]… What?!? Is it not that official historiography tends to not talk about them because they were angry, not angry feminists? Just as it doesn’t deal with – or distorts – the history, actions and writings of so many other angry men and women? The partial vision is not that of Rote Zora who experimented their own path of individual and collective struggle and liberation in the context of wider anti-imperialist and anti-capitalistic action, but of those who try to make a flag out of it in order to give more credibility and specific weight to their own theorizing, to then reduce themselves to looking for ‘paths of self-defence’.

Why entrench oneself in a ‘feminist and lesbian’ discourse [5]? Why yet another protective cage, rather than develop the beauty and infinity of more advanced ideas of the critique of domination (not only gender), put forward and tested?

‘Sisterhood’ has always seemed to me to be a form of allusive alienation of transversal political alliances between oppressed and oppressors, between ‘inter-classist’ as it has become fashionable to say again… adverse parties. I also happened to see a booklet [6] recently containing an Italian feminist’s interviews of some female veterans of the Spanish revolution in 1936, aimed at finding a questionable ‘sisterhood’ between women anarchists engaged on the frontline (and in the background with Mujeres Libres), the POUM and Stalinist women.

It was quite significant that almost centenarian anarchist revolutionary women were far more lucid and open in their critique about the limitations of feminism than their interviewer imbued with 1970s’ clichés was: in the extreme calm of a life lived to the full, they were able to explain simply the equal relations between male and female comrades, and how they managed to ridicule and neutralize the machismos that emerged among the most retrograde and stupid of their comrades. In short the practices and theoretical contribution of these women are far more advanced along the path of liberation of the individual and the negation of authoritarian dynamics than those of feminists who glean from their experiences, defending simulacra of struggle instead of the struggle itself. The need for auto-da-fé, the ‘deconstruction of one’s male privileges’, the search for separate places for discussions, self-awareness and self-analysis in public seem a little too much like signs of these times of over-exposition and woolly thinking, parading ‘struggles’ by category and interior struggles, to end up not struggling at all.

Anna,
Women’s prison of Rebibbia
October 2018

[1] Violenza di genere in ambienti antiautoritari ed in spazi liberati [Gender violence in antiauthoritarian milieus and in liberated spaces], Italian edition translated from Spanish in 2017

[2] Critica all’aborto [Critique of abortion], Jauria – Trans-feminist publication for animal liberation, issue 1, Summer/Autumn 2015

[3] Rote Zora – guerriglia urbana femminista [Rote Zora – Feminist urban guerrilla], Autoproduzione Femminista, 2018

[4] From the introduction to the same book

[5] Which the Rote Zora women themselves didn’t think relevant. From a 1984 interview with Rote Zora: ‘Some of us have children, many others don’t. Some are lesbian, others love men’, page 51, ibidem

[6] Donne contro [Women against], Isabella Lorusso, ed. CSA editrice, 2013

This entry was posted in Antisexismo, Castellano, English, Italiano, Reflexión and tagged , , , , , , , . Bookmark the permalink.